Articolo apparso sulla pubblicazione
“Corso di Presepismo”
a cura dell’ “Associazione Amici del Presepio”
Napoli 2001
autore: Ernesto de Angelis

Quando sia nata la tradizione di rappresentare scenograficamente la nascita di Cristo è impossibile a dirsi, ma è verosimile pensare che essa sia nata proprio dalla fede dei primi seguaci del Redentore, dopo la sua morte. Questo costume è stato tramandato nei secoli fino ai nostri giorni, ma il “modello” di presepe a cui noi oggi ci rifacciamo è quello elaborato a Napoli nel ‘700. Questo perché in quel secolo il presepe passa dalla improvvisazione personale del devoto cristiano alla vera espressione artistica, allorquando i più grandi artisti ed esperti di scenografia, di scultura, di pittura cominciano a dedicare a questo aspetto della cultura tutto o parte del loro tempo, portando così il presepe ad un livello di perfezione artistica tale che ancora oggi viene considerato come “standard” di riferimento.
Il presepe napoletano del ‘700 non si limita a rappresentare la scena della natività, bensì inquadra questa nel tessuto sociale e nelle abitudini di vita dei napoletani, e questi due aspetti così lontani si mescolano e si integrano in modo tanto perfetto, che il corteo degli orientali si accorda perfettamente, ad esempio, con le scene di vita napoletana, con il musicista da strada o con l’orchestrina dei “Viggianesi”. L’esempio dei musicanti non è fatto a caso perché nel presepe del ‘700 questi sono sempre molto numerosi, e sono spesso provvisti di strumenti strani, oggi non più in uso.
Bisogna conoscere un pò di storia napoletana per comprendere perché il presepe raggiunge la sua massima espressione artistica nel ‘700, e perché i musicisti sono in esso così frequentemente rappresentati. E quindi opportuno ricordare che, dopo secoli e secoli di guerre, lutti e miseria, agli inizi del ‘700, e precisamente nel 1734 avviene un episodio che cambierà la storia del popolo napoletano, e cioè l’incoronazione di Carlo III di Borbone a Re di Napoli e delle Due Sicilie. Questo evento segna un’importante svolta economica e culturale nella storia della città. Già poco dopo la sua incoronazione, infatti, Carlo di Borbone emanò un importante decreto che annullava gli ultimi privilegi dei baroni; fondò il Supremo Magistrato del Commercio, al quale attribuì il coordinamento di tutte le attività economiche, istituì il Catasto Generale del Regno, strumento decisivo per la creazione di un sistema fiscale moderno, ristrutturò radicalmente gli impianti portuali, e favorì lo sviluppo di una flotta mercantile che solcò tutti i mari del mondo. Dotò poi il regno di una flotta da guerra che si impose presto come una delle più temibili del Mediterraneo. Nel 1738 fece iniziare i lavori per la costruzione della Reggia di Capodimonte e nello stesso anno ordinò la costruzione della Villa Reale di Portici, intorno alla quale si addensarono splendide ville aristocratiche lungo un percorso che fu chiamato “il miglio d’oro”, e la “residenza di caccia” di S. Leucio, presso Caserta e sempre a San Leucio favorì il sorgere dell’artigianato della seta, che veniva importata dalla Cina, e dei tessuti pregiati, ancor oggi vanto di quelle zone. Nel 1743 fondò il Laboratorio di Ceramica di Capodimonte, i cui pezzi costituiscono oggi il vanto di molti collezionisti di opere d’arte, e che sopravvive ai nostri giorni. Sempre in quel periodo fu dato nuovo impulso all’arte pittorica fino alla identificazione della scuola pittorica napoletana settecentesca. Nel 1751 ordinò a Ferdinando Fuga la costruzione del mastodontico Albergo dei Poveri, un edificio dalle dimensioni colossali (600 metri di lunghezza per 138 di larghezza) locato al centro della città e destinato ad accogliere i poveri del Regno, e nel 1771 affidò a Luigi Vanvitelli la costruzione della Reggia di Caserta, considerata dopo Versailles la più bella d’Europa, e Napoli, già terza capitale europea dopo Parigi e Londra, con Carlo di Borbone dette grande impulso anche alle arti ed alla musica fino all’identificazione di uno stile napoletano in ogni campo dell’arte. Sotto il suo regno fu inaugurato il primo grande Teatro dell’Opera d’Italia, il Teatro di San Carlo (La Scala di Milano vide la luce solo mezzo secolo dopo), teatro che divenne presto il “tempio” della musica Italiana ed Europea e che indusse Stendhal a scrivere: “Non vi è nulla in tutta l’Europa che non dico si avvicini a questo teatro, ma che ne dia la più pallida idea”.
Oltre al San Carlo, tutti i teatri “storici” della città furono allora attivissimi: il Teatro Fiorentini, Il Teatro del Fondo (poi intitolato a Mercadante), il Teatro San Ferdinando e, soprattutto, il Teatro San Carlino. Essi erano frequentatissimi, a testimonianza della gioia di vivere del popolo napoletano.
La musica, da sempre patrimonio culturale della città, particolarmente in questo periodo storico divenne parte integrante del costume di vita del popolo napoletano, ed il napoletano fin da allora fu universalmente accettato come lingua, specie nel canto. Il canto era talmente radicato nello spirito napoletano che il popolo usava comunicare in molte occasioni proprio con questo mezzo espressivo e chi viene ancora oggi in visita alla nostra città potrà ancora sentire, nei quartieri più popolari, i versi melodiosi che i venditori ambulanti lanciano a squarciagola per le strade per decantare le merci in vendita.
Nel ‘700 e nell’800 le orchestrine dei musicanti erano presenti in ogni quartiere ove, sia di giorno che di notte, facevano musica popolare con strumenti tipici della regione come il calascione, la chitarra battente, la tammorra, e strumenti ancora più popolari come putipù, triccaballacche, e scetavajasse che accompagnavano una o più voci. Non mancavano comunque anche repertori classici, come quelli eseguiti dalle orchestrine dei Viggianesi, musicanti girovaghi provenienti da Viggiano, un paesino della Basilicata famoso per la tradizione musicale e per quella di costruire arpe da braccio, le migliori dell’epoca. Le orchestrine dei Viggianesi erano in genere composte da quattro elementi che suonavano arpa, violino, clarinetto e flauto.
Durante il 18° secolo il Regno di Napoli esportò nelle maggiori capitali europee un così gran numero di compositori ed esecutori della sua musica, e di così grande livello artistico, da far considerare lo stile napoletano come il metro del gusto musicale internazionale (Tyler, 1989). Nel ‘700 il napoletano, allora come oggi, era nelle musiche l’unico dialetto universalmente accettato come lingua, ed i turisti stranieri rimanevano colpiti, oltre che dalle bellezze della città, dal carattere dei napoletani e dal fatto che i balli, il canto e la danza erano un costume di vita di questo popolo. Charles Burney (1771) riporta nel suo diario, alla data del 23 ottobre 1770, che nelle strade di Napoli, di notte, vi erano cantanti che, accompagnati da calascione, mandolino e violino, riempivano di suoni e canti le strade, rendendo difficoltoso il riposo!
E’ quindi chiaro che in una città ove la musica era da sempre un costume di vita, si sia parallelamente sviluppata l’arte di costruire gli strumenti per far musica: mandolini, mandole, liuti, calascioni, lire, violini, chitarre, pianoforti, etc. Anche se il periodo aureo della liuteria napoletana è stato il ‘700, questa antica tradizione si è mantenuta nei secoli fino ai nostri giorni. Gli strumenti napoletani, antichi e moderni, sono molto apprezzati nel mondo e ciò fa onore alla nostra città.
Ebbene, nel ‘700 furono molti i liutai famosi che si dedicarono nel tempo libero a costruire strumenti musicali in scala ridotta per i “musicanti” del presepe. Tali strumenti sono dei capolavori d’arte perché essendo stati fatti da veri liutai, sono delle perfette, fedeli miniature di strumenti veri, strumenti costruiti in scala ma curati in ogni particolare e, teoricamente, anche in grado di suonare. Se però osserviamo gli strumenti musicali presenti nel presepe “Cuciniello” del Museo di San Martino, o quelli di varie collezioni private, possiamo notare differenze sorprendenti nella realizzazione di tali oggetti. Ad un occhio attento non può, infatti, sfuggire che accanto a strumenti estremamente proporzionati nelle diverse parti che lo compongono, vi sono strumenti che poco o nulla hanno in comune con lo strumento vero. Si pensi, ad esempio, che le miniature di alcune chitarre battenti del presepe Cuciniello sono state usate dagli esperti di organologia musicale per risalire alle caratteristiche di tale strumento nell’area napoletana settecentesca non essendo, nessuno di questi strumenti, sopravvissuto ai nostri giorni! Tali strumenti sono infatti opera di illustri liutai dell’epoca come vari componenti della famiglia Vinaccia (che ha operato nella nostra città costruendo strumenti musicali a corde, e senza interruzioni, dal ‘700 fino a circa il 1950) dei Calace (tuttora operanti in città con la costruzione di mandolini napoletani), di Vincenzo D’aria (che costruiva strumenti ad arco), e di tanti altri! Accanto ai, pochi per la verità, strumenti ben fatti (come ad es. il “vecchio suonatore di mandolone”, pubblicato nel libro: “Il presepe Cuciniello”, Ed. Electa, Napoli, 1990; o anche il “suonatore di chitarra battente”, pubblicato nel libro “Il presepe napoletano del museo di San Martino”, ed. Electa Napoli,1988), ritroviamo tanti altri strumenti costruiti probabilmente da non addetti ai lavori e che quindi non rispettano l’armonia delle forme! Sono in genere strumenti brutti e sgraziati, spesso non costruiti a doghe ma scavati dal pieno, con manici enormi e palette che, a volte, raggiungono quasi le dimensioni della cassa! (vedi il”vecchio suonatore di chitarra battente” pubblicato nel libro “Il presepe Cuciniello”, Ed. Electa Napoli, p. 107,1990). Sono, e sono stati, prodotti in così gran numero, ed in tutte le epoche, questi brutti strumenti, che l’occhio di molti appassionati di presepismo, non avendo termini di paragone validi, e non essendo degli esperti nel campo, si è attualmente tanto abituato ad essi da considerare questi “mostri” come “presepiali”, ed ad accettari come validi ed originali dell’epoca! Sicuramente si tratta di strumenti costruiti nell’800 ma anche agli inizi dell’800 da disonesti che. Per impossessarsi dell’originale settecentesco, sostituivano questi con “copie”fatte da dilettanti, in occasione di restauri o trasferimenti dei modelli.
Scopo quindi di questa discussione è di avvicinare l’appassionato di presepismo alla liuteria presepiale con lo scopo di affinare i suoi gusti alle armonie di forma degli strumenti classici settecenteschi ed alla tecnica costruttiva liuteria, in modo da saper distinguere a prima vista uno strumento musicale presepiale originale, fatto da un vero liutaio, da uno fatto da un dilettante, o da uno strumento contraffatto!
La costruzione di una “Tammorra” Sorrentina
Rientrando questo aspetto del “presepismo” nella categoria “accessori”, e quindi di interesse alquanto limitato, ovviamente è limitato anche il tempo a nostra disposizione. Questo è, da sempre, il destino delle minoranze! E quindi dobbiamo accontentarci, e cercare di realizzare comunque uno strumento musicale, anche se semplice, con il tempo e l’attrezzatura a disposizione. Uno strumento di realizzazione poco complessa ma di grande effetto se realizzato avendo cura dei particolari, (e che comunque comporta l’acquisizione della tecnica di piegatura del legno che è alla base della costruzione di tutti gli strumenti a corda), è la “tammorra sorrentina”. Accanto al tamburello, di circa 40 cm e con fascia alta, vi era la tammorra, di circa 60 cm e fascia bassa, che era, nel ‘700, la più popolare per i toni gravi emessi.
Per la sua realizzazione si parte quindi da un listello di legno di noce da modellismo di 1 cm di altezza (12 mm per il tamburello), e di circa 30 cm di lunghezza. Dopo aver disegnato su carta millimetrata l’esatto posizionamento dei fori per l’inserimento dei cembali, quello per la “maniglia”, e quello di eventuali fori di abbellimento o per l’inerzione di campanellini, si procede a riportare tali distanze sul listello di legno con l’aiuto di un pennarello indelebile a punta fine (foto1).
Le parti terminali del listello, per una lunghezza di 1 cm, vengono sgusciate a “becco di clarino” ed in senso inverso per permettere un incollaggio delle due estremità senza che vi sia una variazione di spessore in tale zona che comporterebbe una possibile deformazione della tammorra, quindi si procede alla piegatura a caldo (foto 2).
Useremo per lo scopo un “ferro piegafasce” per strumenti ad arco o anche un banalissimo saldatore. Probabilmente, un “piegalistelli” di quelli usati per l’hobbistica va più che bene, ma io non ho esperienza con questo attrezzo, quindi raggiungerò lo stesso scopo con un attrezzo a me più familiare. Portato il ferro alla temperatura voluta (l’attrezzo è dotato di termostato), ovvero quella capace di piegare il listello in questione senza bruciarlo, si mette a bagno nell’acqua il listello per alcuni minuti, quindi si fa sgocciolare l’eccesso di acqua e si forza contro una delle curve più acute del ferro caldo con l’ausilio di un guanto, dopo aver interposto tra la mano ed il listello un lamierino di alluminio. In questo modo il listello si piegherà senza problemi e potremo dargli facilmente una curva a 360 gradi ed incollare le due estremità con l’aiuto di un morsetto (foto3-4).
La stessa curva verrà data ad un altro listello di noce di 2x1mm che servirà da “controfascia”. Se vi saranno delle imperfezioni nella curva del listello, queste possono essere facilmente corrette ribagnando il listello e forzandolo intorno ad una bottiglia ove verrà bloccato con un elastico a fascetta per almeno 24 ore. Una volta liberato dal collo di bottiglia, vengono incollate le due estremità del listello già sgusciate a becco di clarino con l’ausilio di un morsetto e, una volta che la colla sia asciutta, si incolla, a quello che dovrà diventare il bordo superiore, il listello di “controfascia” per aumentare lo spessore della superficie di incollaggio alla membrana con l’aiuto di nastro adesivo o morsetti (foto5).
Una volta ben asciutta la colla, si procede alla spianatura della faccia superiore passando questa su della carta vetrata sottile distesa su una superficie piana, fino a che listello e controfascia non formino una superficie unica. Si procede quindi alla foratura. Per la “maniglia” si userà una punta da 5 mm, una da 4 mm per i fori dei cembali, ed una di 3 mm per gli eventuali fori di abbellimento.
E’ meglio usare “punte per legno”.
Queste, a differenza delle punte per forare metalli, che sono a punta conica, sono a punta piatta ma hanno, al centro della superficie di taglio, una piccolissima punta conica che serve a mantenere il punto di foratura in modo stabile, ovvero, la punta non può deviare durante la sua corsa.
Con una matita si segna la linea di mezzeria in modo che i fori capitino esattamente al centro del listello e si comincia a forare l’inizio e la fine delle “finestre” (foto6), quindi si fanno dei fori intermedi, abbastanza ravvicinati in modo da poter poi con un taglierino eliminare i diaframmi di separazione e rettificare le superfici con una limetta e poi con cartavetro (foto7-8).
Dopo la rettifica dei fori si passa una mano di “turapori” e quando la vernice è perfettamente asciutta (2-4 ore) si rettificano nuovamente i fori e si levigano perbene con carta abrasiva o retina metallica le superfici.
A questo punto si può procedere alla finitura. Avendo usato un listello di noce, che è un legno scuro di aspetto molto gradevole, la finitura può essere ottenuta passando una semplice mano di vernice trasparente lucida. Se invece si desidera ottenere un aspetto più ricercato della tammorra, si può verniciarla con colori, preferenzialmente acrilici perché opachi quando secchi, dando sfogo al proprio estro creativo per la scelta dei colori e per eventuali bordature di abbellimento.
Quando la vernice sarà ben asciutta si può procedere all’applicazione della membrana. Un ritaglio di “pelle di capra”, residuo della preparazione di vere tammorre, un po’ inumidito e ben disteso con l’aiuto di chiodini su una tavoletta di compensato da 10 mm è la soluzione ottimale. Dopo aver passato uno strato sottile di colla sul bordo predisposto della tammorra, si poggia questa sulla pelle di capra e si mette il tutto in pressione con l’aiuto di morsetti sovrapponendo un secondo listello di compensato da 10mm, in pratica formando quello che si usa chiamare “un sandwich” che ha all’interno la nostra tammorra. In mancanza di pelle di capra, anche della carta pergamena (acquistabile in ogni cartoleria) può fare allo scopo. (foto9) Dopo 24 ore si tolgono i morsetti, si rifila il bordo eccedente della pelle o della pergamena e si può, volendo, procedere a dipingerne la superficie con scene di vita napoletana (pratica comune nel ‘700).
L’ultima fase della costruzione comporta la realizzazione dei “cembali” ed il loro alloggiamento nei fori predisposti del listello. I cembali possono essere ritagliati, con l’ausilio di un paio di forbici, da un normale lamierino di ferro sottile (quello che può essere ricavato dalle lattine di conserve è il più adatto allo scopo e quello che viene ancora oggi usato per le tammorre popolari odierne). Una volta forati al centro, i cembali vengono sistemati in coppia nei fori e tenuti in posizione con un sottile fil di ferro. L’ultima figura illustra il risultato finale.










Gli strumenti dell’epoca
Ma vediamo ora quali erano gli strumenti in uso in quel periodo, perché se ci si ispira al presepe settecentesco, ogni particolare, e quindi anche gli strumenti dei musicanti, deve essere filologicamente corretto. Già abbiamo accennato a molti di essi, ma vale la pena di soffermarsi un po’ di più su alcuni.
Bisogna premettere che quasi tutti gli strumenti di quell’epoca erano strumenti derivati da due diversi progenitori: il liuto (da cui discende la parola “liuteria” quale arte di costruire strumenti a corde), strumento con grande cassa ovale, manico corto, e paletta piegata a 90 gradi, munito originariamente di sette corde, ed il sas strumento con piccola cassa a pera e manico lunghissimo, munito di tre sole corde, ambedue importati dal mondo arabo. Questi strumenti, nel tempo, avevano già subito parecchie modifiche e molte erano state le elaborazioni apportate. Così nel ‘700, accanto al liuto, vi erano tiorbe e chitarroni, da esso derivati, ma che avevano, oltre le classiche corde tastabili, anche corde più lunghe che si agganciavano su un secondo cavigliere, dette “di bordone” perché non venivano tastate, ma accordate su determinate tonalità basse e pizzicate all’occorrenza per arricchire il suono di toni gravi.
Un’altra classe di strumenti era quella derivata dal sas, e costituita dal colascione napoletano come progenitore, uno strumento con cassa a pera formata da doghe e manico lunghissimo, fornito di tre corde di acciaio, le cui dimensioni erano di circa 1 metro e 80 cm! Da esso presto derivarono il mezzo colascione, di circa 1 metro e 20 cm, ed il calascioncino, di circa 80 cm. E proprio il calascioncino era lo strumento del popolo, e non in mandolino come erroneamente si crede, che nasce a Napoli proprio nella prima metà del ‘700, ma che diventerà popolare solo un secolo dopo! Il mandolino napoletano come oggi lo conosciamo, ci sta a stento sul presepe napoletano, perché in quel secolo esso era considerato strumento nobile ed elegante, e non certamente popolare!, e pertanto veniva suonato principalmente dalle ragazze di buona famiglia che volevano acquisire una cultura musicale.
Un altro strumento molto popolare, e tipico del meridione d’Italia, era la chitarra battente. Derivata dalla chitarra barocca, essa aveva vita pochissimo pronunciata, fasce altissime fatte a doghe parallele, fondo bombato fatto a doghe, tavola armonica piegata come nel successivo mandolino napoletano, la bocca chiusa da una rosetta in pergamena, e cinque corde doppie (o cori) in acciaio. Veniva chiamata battente perché usata per battute, ovvero era strumento di accompagnamento non adatto ad eseguire melodie.
Per quanto riguarda il violino, esso era già nel ‘700 alla sua massima evoluzione, e da allora non ha più subito modificazioni. Pertanto quello presente sul presepe, è identico allo strumento che oggi conosciamo.
Ernesto de Angelis
Naples, 2001